“Taglio” e svalutazione delle pensioni tra politica, economia e diritto
(note a margine della sentenza Corte Costituzionale del 9 novembre 2020, n. 234)
Corte Costituzionale, 9 novembre 2020, n. 234 – Pres. Morelli; Est. Petitti – U. Z. (avv. Massimo Luciani), F. I. (avv. Francesco Saverio Marini), N. L. ed altri (avv. Nicola Leone), C. L. C. (avv. Mario Rampini), G. C. (avv. Gaetano Viciconte) contro Istituto nazionale della previdenza sociale – INPS (avv. Antonella Patteri), con l’intervento di G. B. ed altri (avv. Giampaolo Maria Cogo) e del Presidente del Consiglio dei ministri (avv. dello Stato Federico Basilica).
GIUDIZIO INCIDENTALE DI COSTITUZIONALITÀ – INTERVENTO DI SOGGETTI CHE NON SONO PARTE NEL GIUDIZIO DINANZI AL GIUDICE REMITTENTE – MANCANZA DI TITOLARITÀ DI UN INTERESSE QUALIFICATO, INERENTE IN MODO DIRETTO E IMMEDIATO AL RAPPORTO DEDOTTO IN GIUDIZIO [Decreto 7 ottobre 2008 (in Gazzetta Ufficiale 7 novembre 2008, n. 261), modificato da ultimo con decreto 8 gennaio 2020 (in Gazzetta Ufficiale, Serie ordinaria, 22 gennaio 2020, numero 17), recante “Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale”]
PREVIDENZA – TRATTAMENTO PENSIONISTICO – RIVALUTAZIONE AUTOMATICA – RIDUZIONE, PER IL TRIENNIO 2019-2021, SULLA BASE DI MISURE PERCENTUALI RIFERITE AL TRATTAMENTO MINIMO INPS – DENUCIATA VIOLAZIONE DEI PRINCIPI DI RAGIONEVOLEZZA, PROPORZIONALITÀ ED ADEGUATEZZA – NON FONDATEZZA DELLE QUESTIONI PROSPETTATE (Cost., artt. 3, 36 e 38 – Legge 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, comma 260)
PREVIDENZA – TRATTAMENTI PENSIONISTICI DI IMPORTO SUPERIORE A 100.000 EURO LORDI ANNUI – DECURTAZIONE PERCENTUALE CRESCENTE, PER LA DURATA DI CINQUE ANNI, ANZICHÉ DI TRE ANNI, DELL’AMMONTARE ECCEDENTE LA PREDETTA SOGLIA – VIOLAZIONE DEI PRINCIPI DI RAGIONEVOLEZZA E PROPORZIONALITÀ DELLE PRESTAZIONI PATRIMONIALI IMPOSTE – ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE PARZIALE (Costituzione, artt. 3, 23, 36, 38, 42, 53, 81, 97, 117, primo comma, e 136; Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 6; Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, art. 1 – Legge 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, commi 260, 261, 262, 263, 264, 265, 266, 267 e 268).
È inammissibile nel giudizio incidentale di costituzionalità l’intervento di soggetti che non siano parte nel giudizio pendente dinanzi al giudice remittente, che non siano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio, ancorché siano parte di un giudizio di uguale oggetto, che sia stato sospeso dal giudice adito in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale in un giudizio incidentale già promosso sulle medesime questioni (1).
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 260, della legge n. 145 del 2018, che ha disposto la riduzione, per il triennio 2019-2021, della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, in misura percentuale proporzionate all’ammontare della pensione, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 Cost. (2).
È incostituzionale l’art. 1, comma 261, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), nella parte in cui stabilisce la riduzione dei trattamenti pensionistici ivi indicati «per la durata di cinque anni», anziché «per la durata di tre anni» (3).
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 261, della legge n. 145 del 2018, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per il Friuli-Venezia Giulia, dal Tribunale ordinario di Milano, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Sardegna, e dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Toscana (4).
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 261, della legge n. 145 del 2018, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Milano e dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Toscana (5).
È infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 261, della legge n. 145 del 2018, sollevata, in riferimento agli artt. 42 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Toscana (6).
La sentenza della Corte Costituzionale del 22 ottobre 2020, n. 234, che decide le questioni di legittimità costituzionale proposte da vari giudici sulle norme della legge di bilancio per il triennio 2019 – 2021 che prevedono la riduzione dell’indicizzazione delle pensioni e la decurtazione del taglio dei trattamenti previdenziali di importo elevato per la durata di cinque anni, è pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, 1^ serie speciale, 11 novembre 2020, n. 46. Si riportano le sue massime per pubblicare di seguito il commento dell’avv. Alessandro De Stefano.
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“Taglio” e svalutazione delle pensioni tra politica, economia e diritto
(note a margine della sentenza della Corte Costituzionale del 9 novembre 2020, n. 234)
Abstract – 1. Il “contributo” della Consulta alla inversione delle spinte espansionistiche della spesa pubblica – 2. Diritti e costituzione – 3. La legittimità costituzionale della svalutazione dei trattamenti pensionistici – 4. Il “taglio” delle pensioni: una misura di solidarietà sociale “interna” al “circuito previdenziale”? – 5. Un problema irrisolto: la costituzionalità dell’iter di formazione della legge di bilancio 2019 e dell’approvazione delle norme recanti il “taglio” dei trattamenti previdenziali – 6. I profili di legittimità della riduzione dei trattamenti previdenziali, considerata come “prestazione patrimoniale imposta” – 7. Considerazioni conclusive.
Abstract – La sentenza in esame – che conferma un orientamento ingiustamente sfavorevole all’intervento in giudizio di parti cointeressate – sembra travalicare i limiti del giudizio di stretta legittimità delle norme censurate, per assumere funzioni di conciliazione di principi costituzionali, equilibri politici ed esigenze di stabilità economica. In particolare, non sembrano condivisibili le giustificazioni dell’ennesimo “raffreddamento” della rivalutazione delle pensioni di importo superiore a tre volte il minimo INPS, che tende ad assumere natura permanente e sembra finalizzato a coprire costi della manovra economica, che dovrebbero essere posti a carico della fiscalità generale. Parimenti, non sembra convincente l’avallo prestato alla riduzione dei trattamenti previdenziali di importo elevato, che contraddice i principi enunciati con la precedente sentenza n. 173/2016: per un verso la sentenza dell’Alta Corte non considera i profili (in realtà non prospettati da alcun remittente) che riguardano la sostanziale violazione delle regole del confronto parlamentare, in relazione ad una normativa imposta dalla maggioranza di governo in base ad un patto politico di legislatura; per altro verso essa lascia aperta la necessità di verificare se il principio della solidarietà sia correttamente abbinato a quelli dell’uguaglianza e della capacità contributiva, o se rappresenti piuttosto una mera enunciazione, che finisce per accrescere la discrezionalità del legislatore, a discapito della stabilità e dell’effettività dei principi costituzionali.
- Il “contributo” della Consulta alla inversione delle spinte espansionistiche della spesa pubblica
Con la sentenza del 22 ottobre – 9 novembre 2020, n. 234, la Corte Costituzionale ha presumibilmente posto la parola “fine” al vasto contenzioso che si è sviluppato per effetto del “taglio” delle pensioni “d’oro” e della riduzione dell’adeguamento dei trattamenti previdenziali al maggior costo della vita, disposti dall’art. 1, commi 260 e ss., della l. 31 dicembre 2018, n. 145 (recante l’approvazione del bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e del bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021). Si potrebbe sostenere che si è trattato di una soluzione rapida ed apparentemente salomonica: sì al rinnovato “raffreddamento” dell’indicizzazione dei trattamenti previdenziali, e sì (ma solo per tre anni, anziché per cinque) alla nuova riduzione delle pensioni di importo elevato, disposte dalle norme in esame (fatta salva – avverte la Corte – la potestà del legislatore di riesaminare la situazione e di adottare nuove misure analoghe a conclusione del triennio, in considerazione della situazione economica del momento).
Il leit motiv della sentenza è rappresentato dalla necessità di bilanciare il diritto alla pensione con le esigenze di contenimento della spesa pubblica: questo bilanciamento costituisce infatti il fattore che giustifica il raffreddamento dell’indicizzazione e la riduzione dei trattamenti previdenziali “elevati”, anche se nei soli limiti temporali della manovra economica che costituisce oggetto della legge di bilancio. Si tratta di una pronuncia che si colloca nel solco di una sempre più accentuata tendenza della giurisprudenza costituzionale, sulla quale aveva fatto affidamento il Governo al momento di sottoporre all’approvazione del Senato le norme censurate, incluse all’interno di unico articolo composto di 1.143 commi (il cd. “maxi-emendamento”) presentato in data 23 dicembre 2018, in sostituzione del testo della manovra di bilancio già approvato dalla Camera [1]. La relazione di accompagnamento, dopo aver richiamato le sentenze che osterebbero all’adozione di misure di tal genere, ha infatti evidenziato che “a partire dalla seconda metà degli anni ’80, la Corte fornisce il proprio contributo per invertire le spinte espansionistiche insite nel sistema, valorizzando il principio del bilanciamento complessivo degli interessi costituzionali nel quadro delle compatibilità economiche e finanziarie” [2]. In questa prospettiva, i diritti economici individuali sono meritevoli di tutela, se e nella misura in cui risultano compatibili con le contingenze economiche.
A dire il vero, in questo caso il “contributo” della Corte Costituzionale al contenimento della spesa pubblica appare anche più consistente di quello fornito in precedenti circostanze analoghe: se le statuizioni relative alla nuova riduzione dell’indicizzazione si limitano a reiterare, in base alle stesse argomentazioni già adottate con precedenti sentenze, le analoghe misure periodicamente disposte nel passato [3], le motivazioni che interessano il “taglio” dei trattamenti previdenziali danno un ulteriore “giro di vite” all’indirizzo intrapreso con la giurisprudenza più recente. Invero, con la precedente sentenza del 13 luglio 2016, n. 173, la Corte aveva sì dichiarato legittima la riduzione disposta per il triennio 2014-2016 dall’art. 1, comma 486, della l. 27 dicembre 2013, n. 147, invertendo il contrario orientamento espresso dall’ancor precedente sentenza del sentenza del 5 giugno 2013, n. 116, che aveva dichiarato l’incostituzionalità del “taglio” disposto dall’art. l’art. 18, comma 22 bis, del d.l. 6 luglio 2011, n. 98 [4]; in quella circostanza, tuttavia, la Corte si era premurata di porre numerosi “paletti”, ostativi alla reiterazione di una simile misura, precisando che essa può essere ammessa solo se “non ecceda i limiti entro i quali è necessariamente costretta in forza del combinato operare dei principi, appunto, di ragionevolezza, di affidamento e della tutela previdenziale (artt. 3 e 38 Cost.), il cui rispetto è oggetto di uno scrutinio ‘stretto’ di costituzionalità, che impone un grado di ragionevolezza complessiva ben più elevato di quello che, di norma, è affidato alla mancanza di arbitrarietà”.
Sulla base di questi presupposti, con l’ultima sentenza la Consulta aveva specificato che un prelievo sugli emolumenti pensionistici: (i) “deve operare all’interno dell’ordinamento previdenziale, come misura ‘forte’, mirata a puntellare il sistema pensionistico, e di sostegno previdenziale ai più deboli […] siccome imposta da una situazione di grave crisi del sistema stesso […], in modo da conferire all’intervento quella incontestabile ragionevolezza, a fronte della quale soltanto può consentirsi di derogare (in termini accettabili) al principio di affidamento in ordine al mantenimento del trattamento pensionistico già maturato (sentenze n. 69 del 2014, n. 166 del 2012, n. 302 del 2010, n. 446 del 2002, ex pluribus)”; (ii) “costituisce […] una misura del tutto eccezionale, nel senso che non può essere ripetitivo e tradursi in un meccanismo di alimentazione del sistema di previdenza”; (iii) “deve essere contenuta in limiti di sostenibilità e non superare livelli apprezzabili: per cui le aliquote di prelievo non possono essere eccessive e devono rispettare il principio di proporzionalità”. Sulla base di questi presupposti, con quella precedente sentenza aveva avvertito, “in definitiva”, che una riduzione dei trattamenti previdenziali, “per superare lo scrutinio ‘stretto’ di costituzionalità e palesarsi dunque come misura improntata effettivamente alla solidarietà previdenziale (artt. 2 e 38 Cost.), deve: operare all’interno del complessivo sistema della previdenza; essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; […]; presentarsi come prelievo sostenibile; rispettare il principio di proporzionalità; essere utilizzato come misura ‘una tantum’”.
Sulla base di questo prossimo precedente, i giudici remittenti, recependo le censure ordinariamente proposte dai ricorrenti, avevano dubitato della legittimità di questo rinnovato “taglio” dei trattamenti pensionistici, perché nel caso di specie non sembra ravvisabile nessuna delle condizioni a cui esso dovrebbe essere subordinato, in base alle regole elaborate dalla stessa Corte Costituzionale. Ed invero, il nuovo prelievo: a) non sembra ricompreso “nel circuito previdenziale”, perché i risparmi attesi non hanno una specifica destinazione e non sono perciò connessi ad una corrispondente riduzione di contributi a carico di altre categorie di pensionati; b) non sembra giustificato da una grave crisi del sistema previdenziale in senso stretto [che appare anzi in sostanziale equilibrio, grazie anche ai primi effetti delle riforme di lungo periodo introdotte dalla l. n. 335/1995 (cd. “riforma Dini”) e dalla l. 214/2011 (cd. “riforma Monti-Fornero”)], ma si inserisce in una manovra “espansiva”, perché tende a finanziare le nuove spese previste dai precedenti commi 255 e 256 dello stesso articolo per il “reddito di cittadinanza” e l’esodo anticipato di alcune categorie di lavoratori (cd. “quota 100”); c) non sembra sorretto da “incontestabile ragionevolezza”, perché nasconde finalità politiche e pone a carico della sola categoria dei pensionati (ancorché di rango “elevato”) i nuovi aumenti della spesa pubblica disposti dalla legge di bilancio; d) non costituisce una misura una tantum, ma reitera ed aggrava, per importi e per durata, la precedente decurtazione.
Con la sentenza in esame la Corte Costituzionale supera queste limitazioni. A proprio avviso, “occorre chiarire che le condizioni di necessità, sostenibilità, proporzionalità e temporaneità (ulteriori rispetto alla già esaminata condizione della destinazione endo-previdenziale del prelievo), cui la sentenza stessa subordina la legittimità dei contributi straordinari sulle pensioni di elevato importo, devono essere intese come criteri di giudizio da applicare alla luce delle circostanze concrete e delle reciproche interazioni, nell’ambito di una valutazione complessiva dominata dalle ragioni di necessità, più o meno stringenti, indotte dalle esigenze di riequilibrio e sostenibilità del sistema previdenziale”.
Più che di un “chiarimento”, si tratta di un passo in avanti verso la destrutturazione dei diritti pensionistici e, più in generale, dei diritti economici riconosciuti dallo Stato sociale: se con la precedente sentenza n. 173/2016 il “taglio” era stato ammesso in via del tutto eccezionale ed una volta soltanto, con l’odierna pronuncia esso trova legittimazione ogni qualvolta lo richieda la situazione economica; se prima era lecito prelevare una parte delle pensioni più elevate per fronteggiare le difficoltà di una specifica gestione previdenziale in difficoltà, ora il prelievo può essere anche accantonato in attesa di ricevere una sua destinazione all’interno del bilancio dell’Ente di previdenza, allorché si decida di incrementare la spesa pubblica con l’introduzione di nuove misure di sostegno sociale.
A tranquillizzare i pensionati “d’oro” non basta il fatto che il “taglio” è stato ammesso per un solo triennio, piuttosto che per l’intero quinquennio a cui si riferiva la norma censurata. La delimitazione del periodo di efficacia della misura non è motivata con esigenze di tutela di un diritto costituzionale, ma con l’opportunità di correggere la più manifesta asimmetria della norma, che – estendendo la riduzione dei trattamenti previdenziali fino a cinque anni – si proiettava oltre l’arco triennale della manovra finanziaria (anni 2018-2021), che costituisce oggetto della legge di bilancio. Si trattava di una anomalia che, insieme ad altri fattori (quali il diffuso dibattito politico che ha preceduto l’approvazione della norma [5], l’inclusione della misura nel “contratto di governo” stipulato dai partiti della maggioranza, la mancanza di una specifica destinazione dei risparmi attesi, l’estensione del “taglio” alle pensioni erogate dagli organi costituzionali, l’analogia della misura con il contestuale “taglio” dei vitalizi dei parlamentari e dei consiglieri regionali), avrebbe dovuto svelare che le disposizioni in esame non avevano effettiva attinenza con la manovra di bilancio, ma avevano una matrice di carattere ideologico, che vi attribuiva una natura tipicamente espropriativa.
Con il suo intervento correttivo, la Corte Costituzionale ha depurato le norme censurate da questo vizio originale e vi ha attribuito una funzione coerente con la legge di bilancio, in cui sono inserite; ha poi sostenuto che esse devono ritenersi costituzionalmente legittime, estendendo il significato e la portata delle regole dettate dalla sua precedente giurisprudenza in materia. Il “chiarimento” porta il diritto alla pensione su un piano sempre più inclinato ed apre le porte ad ulteriori “tagli” futuri, che potrebbero avere carattere anche più incisivo e potrebbero coinvolgere anche fasce diverse da quelle sino ad ora interessate. Eliminati i “paletti” stabiliti in precedenza, la Corte Costituzionale – senza dirlo espressamente – mostra di ritenere che il diritto al trattamento pensionistico sia un diritto “condizionato” o “affievolito”: un diritto “cedevole”, che può trovare tutela costituzionale solo per quanto attiene all’ an, e non pure per quel che riguarda il quantum; un diritto che non può essere abrogato, ma che può essere liberamente ridotto dal legislatore, secondo le sue discrezionali determinazioni ed in considerazione del complessivo stato dell’economia nazionale, con il solo ed incerto limite che non si tratti di scelte manifestamente irragionevoli e/o discriminatorie.
- Diritti e costituzione
La sentenza in esame suscita vari interrogativi, sia sotto il profilo procedurale che con riguardo alle statuizioni di merito. Sotto il primo profilo, desta perplessità la determinazione della Corte Costituzionale di estromettere dal giudizio i soggetti intervenuti, che – pur non avendo la qualità di parti nei giudizi dinanzi ai giudici remittenti – avevano una posizione sostanziale e processuale del tutto identica; nel merito, appare opinabile la tendenza ad adottare interpretazioni flessibili che, anziché garantire la stabilità dei principi costituzionali, sembrano finalizzati a favorire gli equilibri politici ed economici.
La prima questione incide sull’estensione dei diritti di difesa. A tal riguardo, occorre evidenziare che moltissimi pensionati, dalle norme in esame, hanno ritenuto di agire in sede giurisdizionale avverso la decurtazione dei propri diritti, sollevando svariate eccezioni di legittimità costituzionale; tuttavia, solo pochi di essi hanno avuto il privilegio di ottenere un’ordinanza di rimessione al Giudice delle leggi e di accedere al giudizio di costituzionalità. La massa del contenzioso è rimasto in stato di sospensione dinanzi ai giudici di merito, nella attesa che la Consulta si pronunciasse nei giudizi incidentali pendenti dinanzi a sé. In via di fatto, le ordinanze di rimessione intervenute hanno costituito un argine, che ha bloccato un più approfondito ed articolato dibattito processuale su tutte le questioni prospettate nei vari giudizi diffusi in sede di merito ed ha impedito il più ampio esercizio dei diritti di difesa delle parti di questi giudizi.
Questo inconveniente avrebbe potuto essere superato, almeno in parte, se si fosse consentito a questi soggetti di intervenire nei giudizi incidentali pendenti e di avvalersi – se non di tutte le eccezioni di incostituzionalità proposte nelle cause da essi attivate – quanto meno di quelle che hanno costituito oggetto delle ordinanze di rimessione medio tempore intervenute. La Corte Costituzionale ha precluso questa possibilità, riaffermando i suoi tradizionali indirizzi restrittivi in merito all’intervento nei giudizi di costituzionalità.
Si tratta di un’occasione mancata per favorire un più effettivo esercizio dei diritti di difesa ed una maggiore apertura del giudizio costituzionale alle istanze della società civile, in fedele applicazione dell’art. 4, comma 7, delle “Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale”, così come modificato con delibera 8 gennaio 2020 [5], che così recita: “Nei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio”. Del resto, la più recente giurisprudenza costituzionale consentiva di cogliere alcuni segnali in questo senso, perché in altra occasione la Corte aveva ammesso l’intervento di soggetti che, pur estranei al giudizio dinanzi al giudizio remittente, avrebbero subito un danno irrimediabile in caso di accoglimento della questione di costituzionalità proposta dinanzi a sé [6].
Con le determinazioni assunte nella presente causa la Consulta assume un orientamento ambivalente: il novellato art. 4, comma 7, delle “Norme integrative” consentirebbe l’intervento ai soli soggetti che certant de damno vitando ed invocano il rigetto della questione proposta, e non pure a quelli che invocano una pronuncia di incostituzionalità per tutelare i diritti lesi dalla norma censurata. In altri termini, l’intervento è ammesso solo quando si richieda il rigetto della questione prospettata, e non pure quando se ne chieda l’accoglimento. In questo modo, coloro che abbiano proposto un’analoga azione giurisdizionale, che sia rimasta sospesa in attesa dell’esito di un giudizio incidentale di costituzionalità già pendente in relazione alla stessa norma, sono pregiudicati due volte nell’esercizio del proprio diritto di difesa: una prima volta, perché la pendenza di un giudizio incidentale di costituzionalità sulle stesse questioni che costituiscono oggetto della causa, ha finito per precludere l’esame delle sue censure, che avrebbe dovuto consentire l’accesso alla Corte Costituzionale [7]; una seconda volta, per non aver potuto partecipare a tale giudizio, in adesione alle tesi espresse nelle ordinanze di remissione che hanno pregiudicato il regolare corso delle proprie cause [8].
Ma le maggiori riserve riguardano il ruolo che la Corte Costituzionale sembra assumersi nella vicenda, con la sua inclinazione verso interpretazioni evolutive che tendano a conciliare scelte politiche, problemi economici e tutela dei diritti. La Corte reinterpreta la volontà del legislatore, trasfigurando un provvedimento ispirato da una chiara matrice ideologica in una misura asseritamente ispirata a principi di solidarietà sociale; corregge il contenuto dispositivo della norma, riducendo il periodo della sua efficacia e riconducendola nell’ambito della manovra economica, che forma oggetto della legge in cui è inserita; sotto le sembianze del “chiarimento” della precedente giurisprudenza, detta nuove regole costituzionali sui diritti previdenziali, subordinandone la tutela alla loro compatibilità con le esigenze della spesa pubblica, secondo scelte discrezionali affidate al legislatore.
Sembra che in tal modo la Corte Costituzionale si sia attribuita un ruolo di mediazione tra forze politiche, istanze sociali ed esigenze economiche, attraverso l’elaborazione creativa delle regole che possano meglio adattarsi alle contingenze. Si direbbe che abbia avvertito la mancanza di stabilità degli attuali assetti di governo e che tenda a supplire alla precarietà degli equilibri esistenti con un’azione che richiami i valori della solidarietà sociale e favorisca il contemperamento tra diritti individuali ed interessi pubblici.
Si ritiene tuttavia che tale ruolo non si addice alla Corte Costituzionale, quale garante della stabilità dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico, che rappresentano l’ineludibile limite alla discrezionalità del legislatore. La certezza delle regole costituzionali, alle quali l’intero sistema normativo deve conformarsi, costituisce la condizione essenziale del rispetto dei diritti individuali assicurati dalla Carta fondamentale dell’ordinamento. Interpretazioni evolutive e flessibili, che adattano i principi fondamentali alle mutevoli situazioni emergenti dalla realtà sociale, implicano l’incertezza e l’instabilità delle posizioni giuridiche soggettive e pongono a repentaglio i diritti fondamentali, che la Costituzione dovrebbe invece garantire.
- La legittimità costituzionale della svalutazione dei trattamenti pensionistici
Le argomentazioni addotte dalla sentenza in esame per dichiarare costituzionalmente legittime le norme censurate, non appaiono peraltro immuni da critiche. Desta perplessità, in primo luogo, il favore espresso per l’ennesimo “raffreddamento” dell’indicizzazione delle pensioni.
La Corte riconosce, in via di principio, che “nella prospettiva dell’art. 38, secondo comma, Cost.” l’indicizzazione è uno “strumento volto a garantire l’adeguatezza dei trattamenti, dei quali salvaguarda il valore reale”; che essa è “altresì funzionale all’attuazione dei principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, sanciti dall’art. 36, primo comma, Cost.”; che “sussiste un limite di ordine temporale, perché ‘la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, ovvero la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, esporrebbe il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità’”; che “anche le pensioni di maggior consistenza ‘potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere di acquisto della moneta’ […], anche in considerazione dell’effetto di ‘trascinamento’, che rende sostanzialmente definitiva una perdita temporanea del potere di acquisto del trattamento di pensione […]”; che “la discrezionalità legislativa deve osservare un vincolo di ragionevolezza, innestato su un ‘progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell’art. 3, secondo comma, Cost.’”; che “per giustificare il sacrificio dell’interesse dei pensionati alla conservazione del potere di acquisto degli assegni […], occorre una motivazione sostenuta da valutazioni della situazione finanziaria basate su dati oggettivi”.
In via di fatto, tuttavia, questi principi sono erosi, se non contraddetti, dalla determinazione di reiterare una volta di più la riduzione del meccanismo di adeguamento delle pensioni al diminuito potere di acquisto della moneta, così da rendere il trattamento previdenziale sempre meno proporzionato alla qualità ed alla quantità di lavoro svolto nel periodo di servizio. A sostegno di questa scelta si adducono argomenti quali: l’insussistenza di un rigido rapporto di proporzionalità tra retribuzione e pensione; la semplice riduzione, e non l’azzeramento, del meccanismo di indicizzazione; l’insufficienza delle risorse finanziarie (nonostante il carattere “espansivo” della manovra); l’asserita maggiore “resistenza” delle pensioni più elevate (che pure subiscono un blocco più elevato) agli effetti dell’inflazione; la previsione di una tendenza alla stabilità dei prezzi nel periodo interessato (ancorché investito dalla più grave crisi economica del dopoguerra); l’esigenza di scrutinare volta per volta la razionalità e l’opportunità della riduzione, in relazione alle condizioni della finanza pubblica, da desumere da “dati oggettivi”.
Secondo la sentenza in esame, il “dato oggettivo” che nel caso di specie giustifica la reiterata falcidia del valore reale degli assegni pensionistici, sarebbe rappresentato dall’esigenza di finanziare il “fondo per la revisione del sistema pensionistico attraverso l’introduzione di ulteriori forme di pensionamento anticipato e misure per incentivare l’assunzione di lavoratori giovani”, istituito dall’art. 1, comma 256, della stessa legge n. 145 del 2018. Pertanto, “il raffreddamento della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici di elevato importo è stato disposto con una finalità di concorso agli oneri di finanziamento di un più agevole pensionamento anticipato, considerato funzionale al ricambio generazionale dei lavoratori attivi”.
L’iter argomentativo rivela che la questione non è governata da solidi principi costituzionali. La regola generale, che si ispira alla tutela del lavoro e della retribuzione, può essere derogata per esigenze eccezionali che possono essere definite caso per caso e che tendono ad assumere carattere permanente. Ciò equivale alla mancanza di principi stabili, che sono sostituiti da valutazioni di opportunità che sono tipiche dell’attività politica. Nel concreto, al di là delle parole e degli argomenti utilizzati, si manifesta una tendenza al compromesso, per la quale all’aumento dell’età media della vita e della durata del trattamento previdenziale si contrappone una progressiva erosione del valore reale della pensione in godimento.
Si può pure ammettere che la soluzione accolta dalla sentenza in esame sia espressione di un sano empirismo. Sotto il profilo degli astratti principi, rimangono però irrisolte varie questioni di legittimità costituzionale:
- in primo luogo, rimane da chiedere se sia giusto provvedere alla parziale copertura degli oneri relativi alle disposte misure di pensionamento anticipato e di ricambio generazionale facendo ricorso solo alla riduzione del valore reale delle pensioni e senza affatto incidere sulle altre tipologie di redditi, ovvero se una simile determinazione non si ponga piuttosto in contrasto con il principio di uguaglianza affermato dall’art. 3 Cost.;
- in secondo luogo, occorre stabilire se sia conforme al principio di ragionevolezza l’imposizione di una misura pregiudizievole con effetti permanenti (qual è la riduzione dell’indicizzazione, che si riflette anche sulle rivalutazioni future) per far fronte ad una esigenza di natura temporanea (qual è l’anticipazione del pensionamento, per un periodo limitato, di una particolare fascia di lavoratori);
- in terzo luogo, si deve accertare se i costi che la misura in esame si propone di coprire – che la Corte limita a quelli per il pensionamento anticipato disposto dal precedente comma 256, ma che dovrebbero logicamente estendersi anche quelli relativi al “reddito di cittadinanza” disposto dal comma 255 a beneficio delle persone indigenti – non costituiscono parte della spesa pubblica, che dovrebbe essere finanziata con ricorso alla fiscalità generale, piuttosto che con l’imposizione di un sacrificio di crescente intensità a carico della sola categoria dei pensionati, nel rispetto dei principi contenuti nell’art. 53 della Costituzione [9].
4. Il “taglio” delle pensioni: una misura di solidarietà sociale “interna” al “circuito previdenziale”?
Ancor più opinabili appaiono le ragioni che giustificherebbero il “taglio” delle pensioni di importo elevato. La Corte sostiene che questa misura non costituisce uno strumento di finanziamento della spesa pubblica per la cura di interessi di carattere generale, ma rappresenta piuttosto una prestazione patrimoniale imposta per motivi di solidarietà, operante all’ “interno” del sistema previdenziale; per tale ragione, sarebbe legittimo accollare l’onere su una ristretta cerchia di pensionati, non trovando applicazione il principio della universalità del prelievo fiscale [10]. Questa tesi si radica sulle previsioni del comma 265 della norma censurata, secondo cui i risparmi realizzati rimangono depositati nel bilancio dell’Ente che eroga il trattamento previdenziale.
4.1. Si è già osservato che la Corte Costituzionale sembra trasfigurare la ratio della disposizione, attribuendovi una funzione solidaristica che appare obiettivamente estranea all’effettivo intento del legislatore. Costituisce fatto notorio, perché testimoniato dal lungo dibattito politico e dalla diffusa propaganda elettorale che hanno preceduto l’adozione del provvedimento, che il “taglio” delle pensioni elevate è stato voluto per asserite ragioni di giustizia distributiva, nel presupposto che esse costituissero un ingiusto privilegio da eliminare [11].
Questa matrice è rivelata non solo dalle pubbliche esternazioni dei leader politici che hanno accompagnato l’approvazione della misura, ma anche da numerosi elementi ermeneutici contenuti nelle norme censurate (quali la durata quinquennale della riduzione, corrispondente alla durata della legislatura piuttosto che all’arco temporale della manovra di bilancio; la mancanza di specifica destinazione delle somme risparmiate; l’estensione del “taglio” ai dipendenti degli organi costituzionali; l’analogia con il “taglio” dei vitalizi dei consiglieri regionali, disposta per analoghe finalità ideologiche dei commi da 965 a 967 dello stesso art. 1 della l. n. 145/2018). Se avesse colto l’effettiva ratio della disposizione in esame, la Corte avrebbe dovuto riconoscere la sua natura espropriativa, piuttosto che solidaristica, ed avrebbe dovuto dichiararne l’incostituzionalità per violazione artt. 42 e 117 Cost. e dell’art. 1 del prot. add. alla CEDU.
4.2. A conclusioni non dissimili si sarebbe pervenuti, se fossero stati presi in adeguata considerazione i lavori preparatori. Gli atti di interlocuzione tra Governo italiano e Commissione europea ed i documenti di accompagnamento redatti dagli Uffici studi parlamentari e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, includono la misura di cui trattasi tra gli elementi di saldo della finanza pubblica e la collocano quindi nell’ambito del bilancio complessivo dello Stato. In particolare, la relazione tecnica pone in evidenza che il risparmio della spesa previdenziale, determinato dal taglio delle pensioni di importo più elevato, è maggiore della riduzione delle entrate tributarie, determinata dalla corrispondente diminuzione del reddito dei soggetti colpiti) [12]; il documento del dicembre 2018, denominato “Aggiornamento del quadro macroeconomico e di finanza pubblica”, afferma inoltre che si tratta di “misure correttive […] in un’ottica di alleggerimento dei saldi” [13], come conferma il Dossier della XVIII legislatura denominato “Manovra di bilancio 2019-2021 – Effetto su saldi e conto risorse ed impieghi”, nel quale i risparmi di cui trattasi sono compresi tra le misure emendative che ridefiniscono il quadro macro-economico del bilancio dello Stato nel triennio 2019-2021 [14].
In buona sostanza, i documenti di documentazione e prassi impongono di ritenere che le ritenute effettuate sulle pensioni erogate dall’INPS non costituiscono una semplice “partita di giro” tra le varie gestioni previdenziali ad esso affidate, ma rientrano nel bilancio complessivo dello Stato. Si tratta di una impostazione di indubbia esattezza, in quanto il beneficio che esse comportano per il bilancio dell’Ente di previdenza si traduce in una corrispondente riduzione del concorso dello Stato al finanziamento della propria spesa ed implica il miglioramento del bilancio statale consolidato, nel quale il bilancio dell’INPS rientra, ai sensi dell’articolo 18 del decreto legislativo 31 maggio 2011, n. 91.
In questo quadro interpretativo, il “taglio” effettuato appare contrario ai principi costituzionali per ragioni perfettamente sovrapponibili a quelle enunciate dalla Consulta nella citata sentenza n. 116/2013. Invero, ricorrono tutti gli elementi per individuare un’obbligazione di natura tributaria: a) una definitiva decurtazione patrimoniale a carico dei destinatari del provvedimento; b) l’invarianza del rapporto sinallagmatico; c) la destinazione delle risorse derivanti, che devono essere connesse ad un presupposto economicamente rilevante, al sostegno della spesa pubblica. In base a questi presupposti, avrebbe dovuto trovare applicazione il noto principio per cui “la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige invece un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione)” (Corte Cost., sentenza n. 341 del 2000). La Corte avrebbe dovuto perciò verificare se nel caso di specie possano ritenersi rispettati i principi contenuti nell’art. 53 Cost., da considerare come specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., che impongono di esprimere “un giudizio sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione” (Corte Cost., sentenza n. 111 del 1997).
4.3. La Corte Costituzionale ha disatteso sia la tesi del carattere espropriativo, sia quella della natura tributaria della norma censurata; ha optato piuttosto per la diversa ipotesi del “contributo di solidarietà” interno al “circuito previdenziale”, valorizzando la circostanza che i risparmi realizzati rimangono accantonati nel bilancio dell’INPS e degli “altri enti previdenziali interessati”, nella attesa di una specifica destinazione, secondo il disposto del comma 265.
La prospettazione accolta dalla Corte, basata su un argomento puramente formale, non è immune da critiche. Per un verso essa contrasta con le considerazioni svolte in precedenza, che inducono ad attribuire alla ritenuta una natura del tutto diversa; per altro verso, si espone alle considerazioni che seguono.
Occorre considerare, in primo luogo, che la configurazione di un contributo interno al “circuito previdenziale” può valere solo per le pensioni di competenza dell’INPS, che cura svariate gestioni pensionistiche di diverso genere, e non pure per quelle erogate dagli organi costituzionali, alle quali pure si applicano le stesse riduzioni. Questi accantonamenti rimangono in attesa di una destinazione che non può certamente consistere nel sostegno ad altri trattamenti pensionistici all’interno dello stesso circuito. Si perviene quindi all’anomala conclusione che la stessa ritenuta avrebbe natura e finalità diverse, a seconda che sia effettuata dall’INPS o dagli organi costituzionali.
Ma anche se si volessero considerare le sole pensioni INPS, non sembra possibile attribuire rilevanza decisiva al fatto che le somme risparmiate rimangono accantonate nel suo bilancio, al fine di sostenere che si tratta di contributo interno al “circuito previdenziale”. È ben noto, infatti, che la spesa dell’INPS non è destinata solo all’erogazione di pensioni previdenziali (e cioè di trattamenti a regime professionale, maturati a favore dei lavoratori dipendenti collocati a riposo in rapporto al lavoro svolto e/o ai contributi versati), ma è alimentata anche dalla concessione di svariati benefici di natura socio-assistenziali, che soddisfano bisogni pubblici di diverso genere e che, in quanto tali, dovrebbero essere finanziati con il ricorso alla fiscalità generale [15].
Nel primo caso, l’INPS eroga i trattamenti previdenziali attraverso una pluralità di gestioni autonome, che sono finanziate con i contributi dei lavoratori in servizio secondo il metodo “a ripartizione” e sono caratterizzate ciascuna da proprie problematiche e discipline; nel secondo, l’Istituto elargisce ope legis prestazioni di natura interamente assistenziale (invalidità civile, accompagnamento, assegni sociali, pensioni di guerra) e prestazioni tipicamente assistenziali, integrative di una pensione previdenziale (integrazioni al trattamento minimo, maggiorazioni sociali, importo aggiuntivo e quattordicesima mensilità), avvalendosi dell’intervento pubblico realizzato attraverso la “Gestione Interventi Assistenziali” (GIAS), istituita ai sensi dell’art. 37, comma 3, lett. d), della l. 88/1989.
Allorché fa riferimento al bilancio complessivo dell’INPS, la Corte Costituzionale adotta una nozione “ibrida” o “allargata” di “circuito previdenziale”, che comprende funzioni eterogenee: le pensioni professionali da un lato, e le pensioni sociali ed altri molteplici sussidi pubblici da un altro. In tali circostanze, in mancanza di qualsiasi vincolo di destinazione, non si può affatto stabilire se le somme prelevate sui trattamenti pensionistici di importo “elevato” saranno utilizzate per riequilibrare i conti di eventuali gestioni passive, secondo il criterio della solidarietà inter-previdenziale cui la Corte Costituzionale si riferisce, o serviranno piuttosto a finanziare la spesa socio-assistenziale ed a soddisfare bisogni a carattere generale, che interessano l’intera società civile e dovrebbero essere perciò soddisfatti mediante l’intervento pubblico, con oneri a carico di tutta la collettività.
È anzi ragionevole che l’effettiva destinazione del prelievo in esame dovrebbe consistere nella copertura di quest’ultimo genere di spesa, in quanto gli attuali squilibri della situazione finanziaria dell’INPS sono ascrivibili nella quasi interezza alla crescente spesa assistenziale, che negli ultimi tempi ha registrato una forte evoluzione sul piano normativo ed applicativo, estendendo il suo raggio di azione a settori sempre più ampi della vita di relazione (come dimostra l’introduzione del “reddito di cittadinanza”, disposto dal comma 255 dello stesso articolo della legge di bilancio in discussione). Viceversa, le gestioni previdenziali si presentano in tendenziale equilibrio e potranno ulteriormente migliorare la propria situazione nel prossimo futuro per effetto dei maggiori benefici derivanti dalle riforme di lungo termine adottate negli ultimi 25 anni.
Da tutto ciò deriva, in estrema sintesi, che il solo fatto che le ritenute effettuate rimangano accantonate nei bilanci dell’INPS non implica affatto che appartengano al “circuito previdenziale” in senso proprio ed abbiano effettivamente il carattere di un “contributo di solidarietà” interno a tale sistema; al contrario, non si può affatto escludere la configurabilità di un contributo di natura tributaria, perché è possibile (ed è anzi probabile) che le ritenute effettuate siano destinate alla copertura della spesa socio-assistenziale, che dovrebbe essere posta a carico della finanza pubblica. La qualificazione del prelievo come “contributo di solidarietà” interno ad “circuito previdenziale”, impropriamente identificato con l’intero bilancio dell’INPS, comporta dunque una forma di elusione dei principi di universalità e di capacità contributiva insiti nell’art. 53 Cost.
Per tutte queste ragioni, la qualificazione della fattispecie non convince. Il “contributo interno al circuito previdenziale” non può costituire la formula magica per giustificare ogni decurtazione dei diritti dei pensionati, ancorché dotati di un assegno elevato, entro gli incerti limiti della “ragionevolezza” ed ogni qual volta lo suggeriscano le contingenze economiche. Si tratta di un pericoloso “tunnel”, scavato nella imprecisata area delle “prestazioni patrimoniali” delineata dall’art. 23 Cost., che tende ad aggirare i principi di tutela del lavoro, di uguaglianza sostanziale e di capacità contributiva.
- Un problema irrisolto: la costituzionalità dell’iter di formazione della legge di bilancio 2019 e dell’approvazione delle norme recanti il “taglio” dei trattamenti previdenziali
Se pure si volesse ammettere che la riduzione dei trattamenti previdenziali di importo elevato debba essere collocata nell’ambito delle prestazioni patrimoniali consentite dall’art. 23 della Costituzione, non tutti i problemi di costituzionalità potrebbero considerarsi risolti. La sentenza in esame lascia viceversa insoluti i problemi di ordine procedimentale e suscita nuovi interrogativi di carattere sostanziale.
Fino ad ora, nessun giudice di merito ha ritenuto di sottoporre all’esame della Corte Costituzionale la questione della conformità dell’iter di approvazione della legge in esame alle regole stabilite dalla Carta fondamentale. Poiché tale iter non appare affatto ineccepibile, occorre dedurre che sussiste ormai la tendenza ad acquietarsi passivamente alle logiche procedurali elaborate dalla prassi, senza prestare eccessiva attenzione alle forme astrattamente previste. Si tratta di una tendenza pericolosa, nella misura in cui le forme regolamentari sono espressione di fondamentali equilibri istituzionali, che garantiscono il rispetto del sistema parlamentare, fondato sui diritti delle opposizioni e dei singoli parlamentari.
La storia della legge che reca le norme censurate è ben nota. Si tratta della legge finanziaria per il triennio 2019-2021 (e, cioè, della legge di maggiore importanza dell’anno, circondata – come tale – da speciali guarentigie), che è stata presentata alla Camera il 31 ottobre 2018, discussa in Commissione ed approvata dall’Assemblea in prima lettura nella seduta dell’8 dicembre 2018 (cfr. A.C. 1334). In occasione del successivo passaggio al Senato, l’impianto della manovra economica è stato stravolto da un maxi-emendamento, costituito da un unico articolo composto da 1.143 commi, presentato dal Governo nel giorno stesso della discussione in aula (23 dicembre 2018) con la blindatura di una mozione di fiducia. La legge è stata approvata nel corso della stessa seduta, durata poco più di 12 ore, dopo un breve passaggio in Commissione e con un’unica votazione relativa all’intero maxi-emendamento. Svolgimento sostanzialmente analogo ha avuto il nuovo percorso parlamentare alla Camera, dove la legge è stata definitivamente approvata nella seduta del 28 dicembre 2018, senza una compiuta analisi da parte della Commissione competente e sotto la rinnovata blindatura di una mozione di fiducia.
Se si pretendesse un’applicazione rigorosa delle regole costituzionali, occorrerebbe interrogarsi sulla legittimità di questo iter procedendi con riferimento all’intera legge in cui sono inserite le norme delle quali si discute in questa sede: per un verso, si dovrebbe indagare sul rispetto delle competenze delle Commissioni parlamentari, secondo i regolamenti delle Camere; per altro verso, si potrebbe chiedere se la redazione e l’approvazione di una norma di legge formalmente unitaria, ma composta da innumerevoli disposizioni eterogenee, rispettino in senso sostanziale l’ art. 72, primo comma, Cost., che impone di approvare le leggi “articolo per articolo”.
Ma se pure si volesse prescindere da queste possibili considerazioni di carattere generale, che potrebbero ritenersi ormai superate da prassi correnti e solitamente accettate, rimane da interrogarsi sulla legittimità formale delle specifiche disposizioni relative al “taglio” dei trattamenti previdenziali, alla stregua della determinazione della Corte Costituzionale di ricondurle nell’ambito delle prestazioni patrimoniali disciplinate dall’art. 23 Cost. Più in particolare, occorre verificare se tali disposizioni possono ritenersi rispettose del principio della riserva di legge contenuto nella norma costituzionale.
La disposizione per cui “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge” costituisce espressione di un principio di remote origini, tipico delle democrazie rappresentative, volto a sottrarre al potere esecutivo la potestà di imporre sacrifici ai cittadini sulla base di scelte unilaterali non sorrette dal confronto parlamentare. In precedenti circostanze, la Corte Costituzionale ha sostenuto che “la ratio della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. è contenere la discrezionalità dell’amministrazione e prevenirne gli arbitrii, a garanzia della libertà e proprietà individuale” (Corte Cost., 7 aprile 2017, n. 69, che richiama la precedente sentenza n. 70 del 1960). Infatti, solo attraverso il confronto tra forze di maggioranza e di opposizione, esercitato in sede parlamentare nel rituale procedimento di approvazione delle leggi, si può favorire l’equa ripartizione degli oneri di carattere personale e patrimoniale, limitando il rischio che le forze di governo possano adottare misure diseguali, che colpiscano gli avversari politici o favoriscano le categorie sociali di cui sono espressione.
Con la recente ordinanza dell’8 febbraio 2019, n. 17, inoltre, la stessa Corte Costituzionale ha sottolineato “la necessità che il ruolo riservato dalla Costituzione al Parlamento nel procedimento di formazione delle leggi sia non solo osservato nominalmente, ma rispettato nel suo significato sostanziale”. Occorre, in particolare, che sia assicurato “a tutte le forze politiche, sia di maggioranza sia di minoranza, e ai singoli parlamentari che le compongono, di collaborare cognita causa alla formazione del testo, specie nella fase in commissione, attraverso la discussione, la proposta di testi alternativi e di emendamenti. Gli snodi procedimentali tracciati dall’art. 72 Cost. scandiscono alcuni momenti essenziali dell’iter legis che la Costituzione stessa esige che siano sempre rispettati a tutela del Parlamento inteso come luogo di confronto e di discussione tra le diverse forze politiche, oltre che di votazione dei singoli atti legislativi, e a garanzia dell’ordinamento nel suo insieme, che si regge sul presupposto che vi sia un’ampia possibilità di contribuire, per tutti i rappresentanti, alla formazione della volontà legislativa”. Questi principi assumono particolare enfasi in occasione dell’approvazione della legge di bilancio annuale, “in cui si concentrano le fondamentali scelte di indirizzo politico e in cui si decide della contribuzione dei cittadini alle entrate dello Stato e dell’allocazione delle risorse pubbliche: decisioni che costituiscono il nucleo storico delle funzioni affidate alla rappresentanza politica sin dall’istituzione dei primi parlamenti e che occorre massimamente preservare”.
Nel caso di specie, il principio della riserva di legge affermato dall’art. 23 Cost. è stato rispettato solo in apparenza ed è stato tradito nella sostanza. È vero infatti che le (gravose) misure patrimoniali di cui si discute sono state consacrate con formali norme di legge; è tuttavia altrettanto vero che al Parlamento è stato assegnato il mero compito di procedere ad una passiva ed inconsapevole ratifica delle scelte adottate in sede governativa. In tal modo, come pure la Corte Costituzionale ha affermato nella citata ordinanza n. 17/2019, il modus procedendi adottato ha finito per “vanificare l’esame in Commissione e […] pregiudicare la stessa possibilità per i parlamentari di conoscere il testo ed esprimere un voto consapevole”, così da estremizzare le “forzature procedimentali” già stigmatizzate con precedenti pronunce riferite a precedenti analoghi (cfr. Corte Cost., n. 32 del 2014). In particolare, “per effetto del ‘voto bloccato’ che la questione di fiducia determina ai sensi delle vigenti procedure parlamentari, sono [state] precluse una discussione specifica e una congrua deliberazione sui singoli aspetti della disciplina ed [è stato] impedito ogni possibile intervento sul testo presentato dal Governo”. Ciò determina “una graduale ma inesorabile violazione delle forme dell’esercizio del potere legislativo, il cui rispetto appare essenziale affinché la legge parlamentare non smarrisca il ruolo di momento di conciliazione, in forma pubblica e democratica, dei diversi principi e interessi in gioco”.
Se dunque si sostiene che, come la Corte Costituzionale ha statuito con la sentenza in esame, che le misure di cui trattasi rappresentano mere prestazioni patrimoniali riconducibili alle previsioni dell’art. 23 Cost., si dovrà nello stesso tempo ritenere che esse sono illegittime, perché costituiscono espressione della volontà della sola maggioranza di governo, che dà attuazione ad un preciso patto politico, e sono state tradotte in legge in mancanza di qualunque interlocuzione parlamentare con le forze di opposizione.
- I profili di legittimità della riduzione dei trattamenti previdenziali, considerata come “prestazione patrimoniale imposta”
6.1. Anche se si accogliesse la qualificazione della riduzione dei trattamenti previdenziale come “prestazione patrimoniale imposta”, la sentenza in esame lascerebbe irrisolte numerose questioni di legittimità delle disposizioni normative sotto il profilo costituzionale. La prima di esse attiene alla indeterminatezza della destinazione del prelievo.
Con riguardo al tema del “raffreddamento” dell’indicizzazione delle pensioni, la Corte Costituzionale, sostiene che provvedimenti del genere possono resistere al vaglio di costituzionalità solo se dal testo di legge e/o dai lavori preparatori emergono in modo sufficientemente dettagliato le sue finalità, così da rispettare i criteri di trasparenza e non arbitrarietà che il legislatore è tenuto a rispettare [16]. Lo stesso principio dovrebbe valere per misure ancor più gravose e penalizzanti, come la riduzione del trattamento effettivamente erogato rispetto a quello spettante in base ai provvedimenti di liquidazione adottati secondo le vigenti leggi pensionistiche.
Nel caso di specie, questo principio non è tuttavia rispettato. La stessa sentenza in esame non sa individuare con la dovuta esattezza le ragioni del “taglio”. Essa si limita a generici riferimenti a fenomeni endemici di ampia portata e di natura profondamente diversa gli uni dagli altri, che – una volta aboliti i “paletti” ed i warnings contenuti nella precedente sentenza n. 173/2016 – potrebbero giustificare, in ipotesi, qualsiasi genere di riduzione dei trattamenti previdenziali, con qualunque aliquota e per un indeterminato numero di volte.
La sentenza per un verso fa riferimento a problematiche di carattere generale che investono il vigente sistema previdenziale “a ripartizione”, che si presenta “particolarmente esposto alla negatività dell’andamento demografico”, per il fatto che “un numero sempre minore di lavoratori attivi, per di più spesso con percorsi lavorativi discontinui, è chiamato a sostenere tramite i versamenti contributivi il peso di un numero sempre maggiore di pensioni in erogazione”, mentre il “progressivo invecchiamento della popolazione e l’erosione della base produttiva rende via via più fragile il patto tra le generazioni, sul quale il sistema previdenziale si fonda”; per altro verso, allude a fenomeni che interessano tutto l’ambito della assistenza sociale, in quanto richiama i “vari fattori, ‘endogeni ed esogeni’, il più delle volte tra loro intrecciati, quali crisi economica internazionale, impatto sulla economia nazionale, disoccupazione, mancata alimentazione della previdenza, riforme strutturali del sistema pensionistico”, ai quali si potrebbe aggiungere oggigiorno “un’emergenza sanitaria di vaste dimensioni, che, incidendo pesantemente sul quadro macroeconomico, abbatte i flussi contributivi e accentua gli squilibri sistemici”.
Alla genericità di questi riferimenti, che si rivolgono alle ambivalenti esigenze del sistema previdenziale e di quello assistenziale, non supplisce il richiamo specifico “agli obiettivi di ricambio generazionale nel mercato del lavoro che il legislatore ha ritenuto di conseguire per il tramite del pensionamento anticipato in ‘quota 100’”. Infatti, tale richiamo non assolve alla necessità di fornire una dettagliata giustificazione della misura adottata, perché si riferisce in termini del tutto ipotetici ad un obiettivo di politica economica, che per un verso richiederebbe il ricorso a diversi strumenti di carattere tributario (ben più idonei, tra l’altro, ad assicurare un gettito adeguato ed a perseguire efficacemente le finalità dichiarate), e per un altro verso si pone in manifesta contraddizione con la dichiarata esigenza di fronteggiare i fenomeni di crisi generati dall’invecchiamento della popolazione e dalla riduzione dei versamenti contributivi. A ciò si aggiunge che a queste possibili finalità specifiche si potrebbero legittimamente aggiungere altri obiettivi particolari, quali il finanziamento del “reddito di cittadinanza”, che richiederebbero a più forte ragione il ricorso a diverse e più congrue misure di natura fiscale.
Da ciò consegue, in conclusione, che il provvedimento legislativo censurato non risulta sostenuto da giustificazioni verificabili e ragionevoli, che consentano di escludere l’uso arbitrario dei poteri attribuiti alla maggioranza di governo. Ne consegue altresì, come ulteriore corollario, la contrarietà ai principi che dovrebbero ispirare l’imposizione di una prestazione patrimoniale.
6.2. Un altro profilo riguarda il rispetto dei criteri di ragionevolezza e di proporzionalità che, secondo la stessa sentenza in esame, costituisce l’estremo confine di ammissibilità di qualunque provvedimento legislativo che modifichi in senso peggiorativo i diritti soggettivi perfetti delle persone. A tal riguardo, la sentenza in esame sostiene che il sacrificio imposto ai destinatari del provvedimento, pur risultando significativamente più oneroso rispetto a quello derivato da disposizioni analoghe adottate in passato, sarebbe ancora tollerabile, perché idoneo a sostenere la prova di “resistenza” a cui è subordinato l’esercizio dei poteri discrezionali del legislatore [17]. Questa valutazione si basa su criteri di larga massima ed è priva di riferimenti a parametri oggettivi, in guisa che lascia del tutto indeterminato il grado di tutela che la Costituzione riserva ai diritti dei pensionati.
Inoltre, con tale considerazione la Corte si limita a giudicare ragionevole il rapporto tra reddito percepito e percentuale di riduzione; manca invece un’analoga valutazione di ragionevolezza del diverso rapporto tra l’utilità che il provvedimento procura al sistema previdenziale e la gravosità dei sacrifici imposti ai suoi destinatari, identificabili normalmente con persone anziane, bisognose di assistenza ed incapaci di procurarsi nuove fonti di reddito.
A questo riguardo, la sentenza osserva, in via di principio, che si dovrebbe effettuare “una valutazione complessiva dominata dalle ragioni di necessità, più o meno stringenti, indotte dalle esigenze di riequilibrio e sostenibilità del sistema previdenziale”; riconosce poi, in punto di fatto, che le aliquote applicate, ancorché tollerabili, sono “piuttosto severe”, e che “indubbiamente” il sacrificio imposto dal contributo è “personalmente gravoso, anche in ragione del succedersi di ripetuti interventi nei due trascorsi decenni”. Inoltre, la Consulta riconosce che la provvista derivante dal “taglio” è “assai modesta in termini relativi”, così come si evince dai dati da Essa stessa forniti: i risparmi accertati al 31 dicembre 2019 ammontano infatti a 132.290.127 euro, corrispondenti ad € 75.405.372,39 al netto delle imposte corrispondenti e ad una media netta annua di € 37.702.686,19 (e perciò allo 0,03125% circa della spesa previdenziale dello Stato, stimabile in € 120.000 milioni per anno).
Da queste premesse, non si traggono però le debite conseguenze. Si omette infatti di valutare se il “taglio” sia sorretto da ragioni sufficientemente “stringenti”, che giustifichino l’imposizione di un elevato sacrificio a carico di pochi soggetti in rapporto alla utilità arrecata al sistema economico complessivo.
L’analisi avrebbe dovuto condurre ad una risposta negativa. In verità, non si ravvisa il necessario bilanciamento tra la riduzione dei trattamenti pensionistici elevati e l’auspicato riequilibrio del sistema previdenziale. Il sacrificio imposto (che si accentua maggiormente se si considera l’effetto cumulativo con l’altra misura – dagli effetti permanenti – della riduzione dell’indicizzazione) comporta solo il disconoscimento dei diritti connessi al lavoro svolto e lo svilimento della dignità di chi abbia assunto maggiori oneri e responsabilità nel servizio dei pubblici interessi, senza nessun effettivo vantaggio per il sistema previdenziale ed assistenziale, che evidentemente richiede ben altri interventi strutturali ed un ben diverso riequilibrio del sistema tributario.
6.3. I rilievi formulati innanzi assumono maggior rilievo, se si considera che – come costantemente affermato dalla Corte di Giustizia UE e dalla stessa Corte Costituzionale – i trattamenti previdenziali di natura “professionale” hanno natura di “retribuzione differita”. Essi costituiscono dunque il corrispettivo dell’attività prestata nel corso dell’attività lavorativa e meritano la stessa tutela che la Costituzione assicura ai redditi maturati per la prestazione di lavoro, che costituisce il valore su cui si fonda l’ordinamento repubblicano.
La reiterata riduzione di questa tipologia di reddito, ancorché limitata a trattamenti che eccedono l’esigenza di soddisfare le ordinarie esigenze di vita, non sembra conforme ai principi costituzionali, perché erode il rapporto di proporzionalità con la qualità e la quantità del lavoro svolto, che è garantito dall’art. 36 della Costituzione. Infatti, il livello “elevato” del trattamento previdenziale non costituisce il risultato di un privilegio ingiusto, ma trova giustificazione nel livello altrettanto elevato delle funzioni espletate e delle prestazioni rese durante l’attività lavorativa e delle responsabilità assunte nel corso della carriera professionale.
Nella sentenza in esame la Corte osserva che il principio di proporzionalità non implica una necessaria equivalenza tra la retribuzione percepita nel periodo di servizio ed il trattamento previdenziale attribuito dopo il collocamento a riposo. Tale osservazione non appare tuttavia persuasiva: essa implica che, anche nel caso di pensioni liquidate con il sistema retributivo (quali sono quelle incise dalla normativa censurata) l’assegno pensionistico non corrisponde alla retribuzione goduta in precedenza, ma è collegata ad essa da un rapporto di riduzione (che è peraltro più che proporzionale all’aumento del livello retributivo). Non sembra invece che il trattamento previdenziale, già liquidato in misura inferiore rispetto alla retribuzione, possa subire ancora ulteriori e reiterate riduzioni, in misura progressivamente più incisiva, mediante provvedimenti come quelli in esame. Ciò implica infatti una continuativa e sempre più accentuata dispersione dell’originario legame con il lavoro prestato e la retribuzione corrispondente.
6.4. Ulteriori perplessità si pongono con riferimento al principio di uguaglianza. È perfettamente vero che un contributo a carico dei soggetti più benestanti, che sia finalizzato a soddisfare i bisogni delle categorie più deboli, costituisce espressione del principio “forte” della solidarietà, a cui si ispira l’ordinamento costituzionale; è però altrettanto vero che i doveri di solidarietà non possono essere richiamati solo a carico di una ristretta categoria sociale, ed essere ignorati nei riguardi di altre categorie, che si trovino anche in condizione di maggiore benessere, sotto pena di incorrere in ingiuste forme di discriminazione.
Orbene, la pretesa di risolvere i problemi strutturali della spesa complessiva dell’Ente previdenziale solo con misure emergenziali, ripetitive e sempre più onerose, a carico della ristretta categoria dei titolari di pensioni di importo elevato, suscita rilevanti dubbi di violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza affermati dall’art. 3 Cost., sulla base di una valutazione comparativa effettata sia “all’esterno” che “all’interno” del sistema previdenziale. Ed invero:
a) non appare ragionevole accollare i maggiori oneri dei servizi di assistenza e previdenza su una categoria che già sostiene elevatissimi oneri fiscali, assai maggiori di quelli cui è soggetta la generalità dei contribuenti. A tal riguardo, giova considerare che i 24.287 destinatari del contributo de quo subiscono un carico fiscale per II.DD. oscillante tra il 36,17% al 42,98% del loro reddito e rientrano nel ristretto ambito dei 451.275 contribuenti (pari allo 0,74% dei 60.589.000 residenti ed all’1,10% dei 40.872.080 di quelli che nell’anno 2017 hanno presentato una qualsivoglia dichiarazione), che hanno corrisposto il 18,68% di tutta l’IRPEF riscossa dallo Stato in tale anno; e ciò a fronte di un’evasione fiscale annua che, secondo stime attendibili, ammonta a circa 100.000 milioni di euro l’anno [18];
b) se pure si volesse ammettere che le risorse per riequilibrare la spesa previdenziale debbano essere reperite all’interno del sistema pensionistico, non si comprende perché si debba provvedere attraverso il “taglio” degli assegni di importo più elevato, anziché mediante un riequilibrio complessivo ed organico che incida in modo equo su tutte le posizioni e rispetti gli equilibri attuali. Il metodo adottato non appare conforme al principio di eguaglianza e di ragionevolezza, perché opera un’ingiusta discriminazione tra titolari di pensioni regolate da uguali disposizioni di legge (e cioè i titolari di pensioni “retributive” o “miste”) in ragione del loro ammontare. In verità, il diverso importo dei trattamenti non deriva dall’applicazione di regole privilegiate a favore dei titolari delle pensioni più elevate, ma dipende dalla diversità dei presupposti di fatto, connessi alla qualità ed alla quantità del lavoro svolto nel precedente periodo di servizio. La penalizzazione di tali trattamenti determina dunque una ingiusta disparità di trattamento, perché le stesse regole che disciplinano la liquidazione delle pensioni (che già contengono alcune disposizioni perequative al proprio interno e sono soggette ad un meccanismo di indicizzazione meno favorevole rispetto a quello ordinario) sono derogate in peius per alcuni soggetti soltanto, e non per altri, in considerazione del risultato cui esse conducono. Ciò comporta anche l’erosione del principio di proporzionalità rispetto alla qualità ed alla quantità del lavoro svolto: le pensioni di importo elevato si sviliscono di più delle altre e si appiattiscono sui valori di quelle spettanti a chi abbia svolto attività lavorative di minore gravosità ed impegno.
- Considerazioni conclusive
In estrema sintesi, giova considerare che la sentenza in esame si colloca in un delicato e complesso momento della finanza pubblica, nel quale le esigenze di equilibrio del bilancio e di contenimento della spesa si fronteggiano con contrarie tendenze alla espansione degli interventi assistenziali per far fronte al crescente disagio sociale di larghi strati della popolazione. In tale contesto, si può comprendere l’inclinazione della giurisprudenza costituzionale verso forme di mediazione tra gli interessi contrapposti, nell’ottica di valorizzare i valori della solidarietà e di armonizzare i diversi principi espressi dalla Carta costituzionale.
Occorre tuttavia avvertire che in questo modo si rischia di incrinare la stabilità dei principi fondamentali dell’ordinamento e si espongono i diritti soggettivi perfetti delle persone ad oscillazioni ed incertezze, condizionate dalla discrezionalità dell’azione di governo. In tale contesto, appare meritevole di particolare attenzione il diritto al trattamento pensionistico maturato nell’intero corso della vita lavorativa, che sembra esposto a pericolose tensioni, di fronte all’esigenza di contenere una spesa previdenziale ed assistenziale in costante aumento per una pluralità di fattori, quali l’accrescimento della durata media della vita e l’aumento del disagio sociale. La sentenza in esame manifesta il rischio che i diritti acquisiti con il lavoro, che dovrebbero assicurare ad una categoria di soggetti ormai “deboli” di conservare nell’età avanzata il proprio livello di vita, siano esposti a progressiva falcidia, in un confuso contesto in cui si mescolano l’alterazione delle regole, l’attenuazione dei principi e la polemica politica.
Non si nega, in definitiva, che le esigenze della finanza pubblica impongano una gestione oculata della spesa statale e che il disagio sociale richieda un forte appello ai principi della solidarietà. Si ritiene tuttavia che queste problematiche debbano essere affrontate preferibilmente con adeguati interventi di lungo periodo e con un’equa ripartizione degli oneri tra tutti i soggetti dell’ordinamento, in rapporto alle capacità di ciascuno, piuttosto che con il reiterato ricorso a strumenti emergenziali, come quelli in esame. In sostanza, occorre assicurare che il principio della solidarietà sia correttamente abbinato a quelli dell’uguaglianza e della capacità contributiva, onde evitare che si traduca una vuota enunciazione, che finisce per accrescere la discrezionalità del legislatore, a discapito della stabilità e dell’effettività dei principi costituzionali.
Avv. Prof. Alessandro De Stefano
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[1] Il resoconto della seduta del Senato è consultabile all’indirizzo web www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=18&id=1093716.
[2] cfr. Dossier del 22 gennaio 2019 della XVIII legislatura – “Legge di bilancio 2019 – Vol. I – Art. 1, commi 1-401”, consultabile all’indirizzo web http://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/ID0006h_vol_I.pdf?_1621184588449.
[3] Si vedano da ultimo, nella pregressa giurisprudenza, Corte Costituzionale, 1° dicembre 2017, n. 250; 30 aprile 2015, n. 70; 16 luglio 2014, n. 208).
[4] Comma aggiunto dalla legge di conversione 15 luglio 2011, n. 111, e successivamente modificato dall’art. 24, comma 31 bis, del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla l. 22 dicembre 2011, n. 214.
[5] in Gazzetta Ufficiale, Serie ordinaria, 22 gennaio 2020, numero 17.
[6] Si fa riferimento alla ordinanza resa dalla Corte Costituzionale il 26 maggio – 10 giugno 2020, n. 111, che ha ammesso ad intervenire nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 3, 5, 6, 7, 8 e 8-bis, 1-bis e 4-bis, commi 2, 3, 4, 5 e 6, del d.l. n. 109 del 2018, alcuni proprietari o usufruttari di immobili ceduti alla parte pubblica, o che siano oggetto di esproprio, nell’ambito delle operazioni di ricostruzione dell’infrastruttura nota come “Ponte Morandi”. La Corte ha rilevato che gli intervenienti hanno un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio, perché l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’indicato art. 1-bis, e in particolare dei commi 2 e 4, priverebbe di base legale la quantificazione dell’indennità loro spettante.
[7] Si tratta della cd. “sospensione impropria” della causa, in attesa dell’esito del giudizio di costituzionalità già pendente. Afferma al riguardo il Consiglio di Stato che “l’ordinamento processuale interno, ivi compreso quello amministrativo, conosce la c.d. sospensione impropria del giudizio, adottabile dal giudice qualora in altro giudizio (ad esempio) sia stata sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma applicabile nel primo (cfr. Cons. Stato, Ad. pl., ord. 15 ottobre 2014 n. 28). Questa statuizione sospensiva produce a sua volta effetti di economia dei mezzi processuali e di ragionevole durata del processo, evitando che la Corte Costituzionale sia nuovamente investita della medesima questione già sollevata nell’altro giudizio ed il conseguente rischio prolungare la durata del giudizio di costituzionalità, e di riflesso di quello a quo. Tuttavia, deve del pari precisarsi che la sospensione impropria costituisce oggetto di una facoltà del giudice, per l’esercizio della quale egli deve avere appunto riguardo alle conseguenze sulla durata e sull’esito del giudizio di cui è chiesta la sospensione” (Cons. Stato, sez. VI, 13 giugno 2019, n. 3984/2019).
[8] La Corte Costituzionale aveva già dichiarato l’inammissibilità dell’intervento di altri soggetti in uguale posizione con precedente ordinanza del 17 settembre 2020, n. 202.
[9] Le perplessità si accrescono, se si considera che il pensionamento anticipato di una fascia di lavoratori in servizio ed il ricambio generazionale, che – secondo la Corte Costituzionale – giustificherebbero il “raffreddamento” della indicizzazione delle pensioni in godimento – non interessano affatto gli attuali titolari di trattamenti previdenziali, che non hanno nessuna esigenza di accogliere nel proprio “club” coloro che vogliano abbandonare il servizio attivo ed unirsi alla propria categoria, ma riguardano specificamente le imprese che risparmiano sui propri oneri contributivi, i nuovi “esodati” che desiderano lasciare il servizio attivo ed i nuovi assunti che aspirano ad un posto di lavoro. In tali circostanze, non si comprende la ragione per cui i soggetti effettivamente interessati debbano essere esentati dai relativi oneri, che sono invece accollati su soggetti che sono del tutto estranei alla manovra.
Parimenti, non vi è ragione per negare che la misura in esame tenda a coprire i costi del “reddito di cittadinanza”, che il legislatore ha ritenuto di introdurre contestualmente con il comma 255, al dichiarato fine di contrastare “la povertà, la disuguaglianza e l’esclusione sociale”. Questo provvedimento, ancor più del precedente, ha un’evidente funzione di protezione sociale, in guisa che sarebbe stato necessario coprire i relativi costi attraverso la fiscalità generale, nel rispetto del comune obbligo di contribuire alla spesa pubblica, e non con l’imposizione di un sacrificio a carico esclusivo di una ristretta cerchia di persone in posizione di naturale debolezza, in violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza.
In realtà, le maggiori spese che il legislatore si è proposto di coprire, almeno in parte, con la riduzione del valore reale delle pensioni interessano allo stesso modo tutte le categorie di lavoratori in servizio (i quali potrebbero contribuire alla maggiore spesa con un aumento dei contributi previdenziali a loro carico o con un “contributo di solidarietà” a proprio carico) e, più in generale, l’intera società civile, e dovrebbero essere perciò finanziate con un onere a carico di “tutti” i soggetti dell’ordinamento, in proporzione con la propria capacità contributiva. La disposizione contenuta nell’art. 1, comma 260, della l. n. 145/2018 appare perciò in contrasto con il principio di “eguaglianza sostanziale”, richiamato dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza in esame, coniugato con quello di universalità del concorso alla spesa pubblica, stabilito dall’art. 53 Cost.
[10] Lo stesso argomento è stato adottato dalla precedente sentenza n. 173/2016, sul rilievo che il prelievo previsto dall’art. 1, comma 486, della l. 147/2013 mirava anche “a concorrere al finanziamento degli interventi di cui al comma 191 del presente articolo”, e cioè a consentire l’incremento del numero dei lavoratori aventi titolo all’ottenimento del beneficio di cui all’articolo 1, comma 231, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, e successive modificazioni.
[11] Così ha dichiarato il Vice Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, on.le Luigi Di Maio, nella conferenza stampa al termine della riunione del Consiglio dei Ministri del 15 ottobre 2018, che ha approvato l’originario testo del disegno di legge della legge finanziaria 2019: “Ci tenevo a dire che questa per me, per noi, per il Movimento 5stelle, per tutto il Governo, credo non sia soltanto una manovra qualsiasi, non è una legge di bilancio qualsiasi, ma è quella che abbiamo definito una manovra del popolo, ma soprattutto un nuovo contratto sociale che lo Stato stipula con i cittadini. È la grande occasione di smetterla di tagliare diritti ai cittadini per finanziare privilegi, ma in questa legge di bilancio usiamo i privilegi di quelli di prima per finanziare i diritti dei cittadini. Come avrete letto, entrano nella legge di bilancio il taglio delle pensioni d’oro […]” (si veda la registrazione della conferenza stampa sul all’indirizzo web http://www.governo.it/media/conferenza-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-23/10144).
Tale dichiarazione è coerente con quanto previsto al paragrafo 26 del “Contratto per il governo per il cambiamento” stipulato con scrittura privata autenticata nel maggio 2018 dal Signor Luigi Di Maio, quale Capo Politico del “MoVimento 5 Stelle”, e dal Signor Matteo Salvini, quale Segretario Federale della Lega (consultabile all’indirizzo web: https://download.repubblica.it/pdf/2018/politica/contratto_governo.pdf), che così recita: “Riteniamo doveroso intervenire nelle sedi di competenza per tagliare i costi della politica e delle istituzioni, eliminando gli eccessi e i privilegi. Occorre ricondurre il sistema previdenziale (dei vitalizi o pensionistico) dei parlamentari, dei consiglieri regionali e di tutti i componenti e i dipendenti degli organi costituzionali al sistema previdenziale vigente per tutti i cittadini, anche per il passato. Occorre razionalizzare l’utilizzo delle auto blu e degli aerei di Stato, oltre che l’utilizzo dei servizi di scorta personale. Per una maggiore equità sociale riteniamo altresì necessario un intervento finalizzato al taglio delle cd. pensioni d’oro (superiori ai 5.000,00 euro netti mensili) non giustificate dai contributi versati”.
La misura non è stata tuttavia inserita nel testo del d.d.l. presentato alla Camera ed è comparsa per la prima volta nel maxi-emendamento presentato al Senato il 23 dicembre 2018.
[12] Si vedano il Dossier del dicembre 2018 della XVIII legislatura – “Legge di Bilancio 2019 – Modifiche approvate dal Senato – Profili finanziari”, consultabile al sito web https://documenti.camera.it/Leg18/Dossier/Pdf/VQ1334B.Pdf, p. 347 ss.; il Dossier del dicembre 2018 della XVIII legislatura – “Legge di Bilancio 2019: Effetti sui saldi a seguito del maxiemendamento 1.9000”, consultabile al sito web documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/DFP5.pdf?_1558696490513, pp. 5 e 7; il Dossier del gennaio 2019 della XVIII legislatura – “Manovra di bilancio 2019-2021 – Effetti sui saldi e conto risorse e impieghi”, consultabile al sito web documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/DFP006.pdf?_1558696229906, pp. 9 e 11.
[13] Consultabile all’indirizzo web: http://www.mef.gov.it/inevidenza/documenti/AggiornamentoQM-economico_e_di_FP.pdf, p. 8.
[14] Consultabile nell’indirizzo web: www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01098456.pdf, p. 7.
[15] Secondo i principi desumibili dalla legislazione e dalla giurisprudenza europea, nell’ambito del sistema pensionistico occorre distinguere due generi di trattamenti, nettamente distinti tra loro: i trattamenti di carattere professionale e quelli di natura socio-assistenziale. Afferma a tal riguardo l’Avvocato Generale Jacobs al punto 42 delle conclusioni presentate nella causa C-7/93, Beune, che “[la] giurisprudenza della Corte (…) si propone di operare una chiara distinzione tra i regimi generali di previdenza sociale e i regimi che operano nel contesto di un rapporto di lavoro”. Invero, la nozione di “regime generale di previdenza sociale” si desume dalla direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, che – nel dettare disposizioni per la graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne nella materia – include in questa categoria “i regimi legali che assicurano una protezione contro i rischi di malattia, invalidità, vecchiaia, infortunio sul lavoro e malattia professionale, disoccupazione”, e li distingue dai “regimi professionali”, per i quali ha previsto una disciplina autonoma per l’attuazione del medesimo principio. Reciprocamente, la direttiva 2006/54 definisce quali “regimi professionali di sicurezza sociale” i sistemi di protezione contro gli stessi rischi (malattia, invalidità, vecchiaia, infortunio sul lavoro, malattia professionale, disoccupazione), che sono estranei alla disciplina prevista dalla direttiva 79/7/CEE e che hanno lo scopo “di fornire ai lavoratori, subordinati o autonomi, raggruppati nell’ambito di un’impresa o di un gruppo di imprese, di un ramo economico o di un settore professionale o interprofessionale, prestazioni destinate a integrare le prestazioni fornite dai regimi legali di sicurezza sociale o di sostituirsi ad esse, indipendentemente dal fatto che l’affiliazione a questi regimi sia obbligatoria o facoltativa”.
La diversità di natura dei due regimi previdenziali è chiaramente espressa anche dalla giurisprudenza europea, la quale evidenzia che lo spartiacque tra le due categorie (e le due discipline) è rappresentato dalla connessione o meno con il rapporto di lavoro. I trattamenti previdenziali di sicurezza sociale sono concessi in base a “considerazioni di ordine politico, sociale, etico o di bilancio, come nel caso di regimi pensionistici che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 79/7” (conclusioni dell’Avvocato Generale Eugeni Tanchev presentate il 20 giugno 2019 in riferimento alla causa C-192/18, punto 46); al fine di qualificare un regime pensionistico professionale, invece, “l’elemento davvero determinante” è il rapporto di lavoro (cfr. conclusioni dell’Avvocato Generale Jacobs nella causa C-7/93, Beune, punto 38 e quelle dell’Avvocato Generale Kokott nella causa C-19/02, Hlozek, che richiamano l’orientamento enunciato dalla Corte di Giustizia UE con le sentenze del 9 febbraio 1982, in causa C-12/81, Garland, punto 5; del 17 maggio 1990, in causa C-262/88, Barber, punto 12; del 9 febbraio 1999, in causa C-167/97, SeymouSmith and Perez, punto 23. V. pure Corte Giustizia C.E., sentenza del 17 aprile 1997 in causa C-147/95, Evrenopoulos, punto 19, secondo cui “soltanto il criterio relativo alla constatazione che la pensione è corrisposta al lavoratore per il rapporto di lavoro tra l’interessato ed il suo ex datore di lavoro (…) può avere carattere determinante”, nonché Corte di Giustizia CE, 29 novembre 2001, in causa C-366/99, Griesmar, punto 28, e giurisprudenza ivi citata, e, più recentemente, sentenza 26 marzo 2009, in causa C559/07, Commissione/Grecia, punto 23).
In coerenza con tale orientamento, la Corte di Giustizia EU ha distinto “le pensioni che dipendono dal rapporto di lavoro che lega il lavoratore al datore di lavoro”, che hanno natura di “retribuzione differita” (in tal senso, cfr. Corte di Giustizia CE, sentenza del 17 maggio 1990, nella causa C-262/88, e considerato n. 13 della direttiva 2006/54/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 luglio 2006), da “quelle derivanti da un sistema legale al cui finanziamento contribuiscono i lavoratori, i datori di lavoro e, eventualmente i pubblici poteri in una misura che dipende meno da un rapporto di lavoro siffatto che da considerazioni di natura sociale”. In particolare, “non possono essere inclusi in tale nozione i regimi o le prestazioni previdenziali, quali le pensioni di vecchiaia, direttamente disciplinati dalla legge al di fuori di qualsiasi concertazione nell’ambito dell’impresa o della categoria professionale interessata, e obbligatori per categorie generali di lavoratori” (sentenza 22 novembre 2012, Elbal Moreno, C-385/11, EU:C:2012:746, punto 20, e giurisprudenza ivi citata).
[16] Nello stesso senso, nella pregressa giurisprudenza, cfr. Corte Cost., sentenze nn. 250/2017 e 70/2015, cit.
[17] La misura dei tagli alle pensioni si è progressivamente innalzata: dalla misura del 2% originariamente prevista dall’art. 37 della l. 23 dicembre 1999, n. 488, si è pervenuti a percentuali oscillanti dal 15% al 40% in base all’art. 1, comma 261, della l. n. 145/2018.
[18] Si veda al riguardo l’accurata ricostruzione del sistema pensionistico italiano, rapportato al sistema fiscale, contenuta nel VI Rapporto annuale – “Il Bilancio del Sistema Previdenziale italiano – Andamenti finanziari e demografici delle pensioni e dell’assistenza per l’anno 2017”, redatto a cura del Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali.
[19] Secondo l’INPS, nell’anno 2018 solo il 4,1% delle pensioni vigenti erano liquidate interamente con il sistema contributivo. Il 13,6% con il sistema misto e le rimanenti esclusivamente con il sistema retributivo. Si veda in proposito il XVII Rapporto annuale INPS del 4 luglio 2018, consultabile all’indirizzo web: https://www.inps.it/docallegatiNP/Mig/Dati_analisi_bilanci/Rapporti_annuali/Inps_R.A._XVII_bassa.pdf, p. 181.