1. Il controllo automatizzato delle dichiarazioni. Un sistema (quasi) perfetto.
Ogni anno l’Agenzia delle Entrate invia a tutti i contribuenti una comunicazione con cui evidenzia l’esito dell’attività di controllo delle dichiarazioni eseguita ai sensi dell’art. 36 bis del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600. Questo controllo è diretto a correggere gli errori materiali e di calcolo commessi dal contribuente nella compilazione della propria dichiarazione ed è effettuato con procedure totalmente automatizzate.
L’esito del controllo è comunicato al contribuente per evitare la reiterazione dei suoi errori e per consentire la regolarizzazione degli aspetti formali. I dati contabili risultanti dalla liquidazione si considerano dichiarati a tutti gli effetti dal contribuente.
La finalità della norma di correggere gli errori del contribuente, l’affidamento del controllo ad un elaboratore elettronico, la circostanza che i dati liquidati dal controllo sono considerati dalla legge come i dati esatti che il contribuente avrebbe dovuto dichiarare, inducono a ritenere che si tratta di ottimo e sofisticato sistema che assicura il corretto calcolo delle imposte dovute ed elimina ogni irregolarità. Per questo motivo, la dottrina e la giurisprudenza non prestano normalmente particolare attenzione a questa norma ed alle sue applicazioni: lo considerano uno strumento naturalmente buono, affidato ad un’intelligenza artificiale quasi infallibile, che corregge ogni errore ed assicura un sistema quasi perfetto.
In questo contesto l’Agenzia sembra prendersi cura del contribuente. Gli corregge gli errori, gli raccomanda di non commetterli più, gli fornisce “assistenza”, gli riduce le sanzioni al 10% degli importi non versati se provvede a regolarizzare le irregolarità rilevate entro il termine di 30 giorni.
Sembra tutto molto bello, ed in parte lo è. Ma non è tutto oro quel che luce.
2. Quando le correzioni degli errori sono erronee.
Ho cominciato a dubitare della infallibilità di questo sistema quando ho ricevuto le prime comunicazioni di irregolarità sulle prime dichiarazioni presentate con il modello unico, con conseguente richiesta di pagamento di varie somme per tributi e sanzioni nel termine di 30 giorni. I controlli relativi agli anni 2011 e 2012 si sono rivelati errati, così come la stessa Agenzia ha riconosciuto nell’ambito della propria attività di “assistenza”.
Devo dire, incidentalmente, che i controlli si sono rivelati corretti laddove hanno rilevato l’avvenuto pagamento di somme superiori al dovuto. Di ciò sono grato, anche se le somme pagate in eccesso non sono state ancora restituite, nonostante il decorso di vari anni e le richieste di compliance, e se sarò perciò costretto ad avviare un’azione giudiziale per ottenerne il pagamento.
Gli errori commessi nell’attività di controllo mi hanno indotto a formulare alcune domande: i cervelli elettronici che elaborano i dati sono davvero infallibili? e che succede, se fossero errati i programmi che controllano i procedimenti di calcolo degli elaboratori elettronici? e come si fa a scoprire se questi programmi sono corretti e se si ispirano ad una corretta interpretazione delle norme vigenti?
3. Il controllo automatizzato dei duplici versamenti di imposta.
Spero che chi ha voluto seguirmi sino ad ora vorrà continuare a leggere questa storia. Vi troverà cose interessanti, che potrebbero riguardare migliaia (o milioni) di contribuenti che si trovino in condizioni simili.
I dubbi maggiori sull’efficienza del sistema mi sono sorti a seguito dell’ultimo controllo automatizzato, relativo all’anno 2015. “Egregio Signore” – mi ha scritto l’Agenzia – secondo i nostri controlli la Sua dichiarazione Unico 2016 presenta gli errori che sono evidenziati nelle pagine che seguono. Se è d’accordo con i nostri dati, può regolarizzare la Sua posizione versando la somma di 118,20 euro, entro 30 giorni dal ricevimento di questa comunicazione. In questo caso, la sanzione ordinariamente prevista… è ridotta ad un terzo”.
Alla cortese lettera era allegato un prospetto che, per esigenze di chiarezza, di seguito riproduco:
IRPEF Importo dichiarato Importo variato
Eccedenza d’imposta compensata 2.785,00 2.888,00
Imposta a credito 5.154,00 5.051,00
(tab. 1)
In sostanza, avrei utilizzato in compensazione un credito di imposta che eccede quello dichiarato per un importo di € 103,00, ed avrei conseguentemente dichiarato un’imposta a credito superiore in pari misura a quello effettivamente spettante.
Per capirne di più ho cominciato ad esaminare e riesaminare tutta la documentazione fiscale relativa all’anno in questione ed ho finalmente compreso il busillis. Avevo effettivamente commesso un errore. Avevo versato due volte il secondo acconto dovuto nel mese di novembre 2015, per un ammontare complessivo di € 979,00, mediante compilazione di due F24 identici, del seguente contenuto:
Cod.Tributo Periodo di riferimento Importo a debito Importo a credito
1841 2015 901,00 0,00
4001 2014 0,00 104,40
4048 2015 182,40 0,00
SALDO DELEGA…………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………..979,00
(tab. 2)
Il mod. F24, erroneamente duplicato, si riferiva dunque ad un debito verso l’erario di € 901,00 + € 182,40, compensato con un credito dell’anno precedente di € 104,40.
Secondo comuni canoni logici e secondo il comune buon senso, mi sarei atteso che l’Agenzia mi comunicasse che per errore avevo versato due volte lo stesso importo, per un ammontare complessivo di € 979,00, e che avevo diritto alla restituzione di quanto versato in eccesso. Avrei creduto che ciò discende direttamente dal disposto dell’art. 2033 c.c., secondo cui: “Chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato”.
Invece no.
La logica delle intelligenze artificiali, fondata sull’elaborazione automatizzata dei dati in base ai codici tributo, supera la logica comune degli esseri umani. Secondo l’elaboratore elettronico occorre tenere distinti e separati tutti gli elementi contenuti nel modello F24 indebitamente duplicato. Per un verso si potrebbe riconoscere il diritto alla restituzione (in tempi imprecisati) dell’importo lordo dei tributi versati una seconda volta, nell’ipotesi in cui questo diritto sia confermato a seguito di ulteriori verifiche; per altro verso si configura (con certezza) l’indebita utilizzazione del credito di € 103,00 recato una seconda volta in compensazione nel secondo F24. L’indebita utilizzazione di questo credito genererebbe a sua volta l’obbligo di pagare al fisco la somma corrispondente, con maggiorazione di interessi e sanzioni (graziosamente ridotte al 10% nel caso di pagamento nel termine di 30 giorni).
4. Le intelligenze artificiali hanno ragione.
L’Agenzia delle Entrate presta “assistenza fiscale” ai contribuenti che siano vittima di controlli sballati. Ho perciò scritto all’Agenzia, rappresentando che non avevo effettuato nessuna indebita utilizzazione di crediti di imposta, ma avevo semplicemente pagato due volte lo stesso debito. Infatti:
a) per un verso i crediti di imposta si utilizzano per compensare un debito di imposta, e non un versamento indebito. Non ha quindi senso affermare che è stato utilizzato un credito per effettuare un versamento indebito (piuttosto che per pagare un debito effettivo);
b) per un altro verso, nell’ambito delle operazioni di liquidazione non ha senso tener distinte e separate le somme indicate a debito e le somme esposte a credito nel mod. F24 con cui è stato duplicato il versamento già effettuato. Tale operazione deve essere effettuata unitariamente, tenendo conto del solo risultato finale, compensando le somme indicate a debito e quelle indicate a credito. In tal modo, i crediti che si assumono indebitamente utilizzati perdono qualunque individualità e rilevanza e non possono costituire il preteso per configurare presunti e contrapposti debiti del contribuente.
Gli argomenti giuridici che ho cercato così di rappresentare non sono stati per nulla considerati. Ho ricevuto una risposta che sembra fornita dalla stessa intelligenza artificiale che ha elaborato i dati. Se si traduce in termini comprensibili il messaggio ricevuto in risposta, si comprende che l’Agenzia ha pedissequamente ribadito, sulla sola base della acritica lettura dei dati e dei codici esposti nei documenti informatici e senza nessuna razionale analisi della vicenda, che avrei utilizzato due volte lo stesso credito; che con gli F24 avrei perciò utilizzato crediti maggiori di quelli indicati in dichiarazione; che il credito di imposta risultante dalla dichiarazione sarebbe inferiore in misura corrispondente a quello indicato; che sarei perciò obbligato a pagare il maggior credito indebitamente esposto in dichiarazione; che sarei obbligato in aggiunta a pagare interessi e sanzioni sul maggior credito. Il messaggio si conclude poi con la seguente frase: “Con istanza di sgravio su cartella potrà richiedere assistenza per la definizione della liquidazione in oggetto”.
Ho puntualmente ricevuto la cartella per il pagamento della somma rilevata a debito, con le sanzioni elevate al 30% e con l’ordine di pagare entro 60 giorni sotto pena degli atti esecutivi. Nel tentativo di evitare un giudizio di cui non è facile comprendere gli sviluppi, ho valorizzato l’invito a verificare se si potesse richiedere lo sgravio del ruolo e si potesse definire l’ormai intricata vicenda sulla base di un ragionamento semplice e di un calcolo elementare.
Ho perciò chiesto nuovamente “assistenza” all’Agenzia con una telefonata all’apposito numero verde. Ho ripetuto di aver effettuato un versamento indebito ed ho chiesto di ottenere, sic et simpliciter, la restituzione della somma netta indebitamente versata la seconda volta.
Non è servito a niente. L’operatore telefonico ha ripetuto la stessa analisi acritica e dissociata dei dati risultanti dai documenti informatici: avrei utilizzato due volte lo stesso credito; avrei dichiarato un credito di imposta superiore a quello risultante dall’utilizzazione degli F24; dovrei pagare la somma indebitamente utilizzata a credito una seconda volta; dovrei pagare sanzioni ed interessi su tale somma.
In sostanza, avrei commesso la stessa violazione del contribuente che abbia totalmente omesso di versare le imposte dovute. Né avrebbe alcuna rilevanza quanto versato in eccesso, perché l’elaboratore ha rilevato questi versamenti, ma non li ha riconosciuti.
L’elaboratore elettronico ha sempre ragione. Chi ragiona con la sua testa ha torto, e guai al contribuente che si azzardi a ragionare.
5. La conformità dei controlli automatizzati ai principi di diritto.
L’infallibile logica delle intelligenze artificiali deriva dal modo in cui esse sono programmate. L’esperienza rivela che anche i funzionari pubblici, che danno concreta applicazione ai responsi dei controlli automatizzati, agiscono in base alla stessa logica. Gli argomenti logico-giuridici non sono dunque in grado di modificare i risultati forniti dagli computer mediante l’elaborazione di numeri e codici.
Ma… è proprio certo che la programmazione dei sistemi automatizzati è conforme alle regole del diritto, e che pertanto i risultati da essi forniti sono sempre corretti sotto il profilo logico-giuridico? Ed è proprio certo, per converso, che i contrari argomenti che il contribuente ritenesse di formulare sono necessariamente errati? E quali conseguenze si producono, nel caso in cui la programmazione dei sistemi di controllo automatizzati, a cui i funzionari dell’Agenzia fedelmente si adeguano, fosse fondata su principi non conformi a corretti principi di diritto? E quale controllo può essere esercitato sulla conformità a diritto dei programmi che regolano i controlli automatizzati?
Si tratta di questioni che vanno molto al di là dello specifico caso che qui si vuole rappresentare e che investono le modalità, sostanzialmente incontrollate, con cui l’Agenzia esercita i propri controlli sulle dichiarazioni ed avanza le sue pretese nei confronti dei contribuenti. E non sembra che i criteri comunemente adottati si sottraggano a possibili contestazioni, sotto il profilo logico-giuridico.
Il caso di specie è emblematico delle perplessità che possono sorgere – non solo secondo i comuni canoni della logica e del buon senso, ma anche sotto il profilo strettamente giuridico – in merito ai criteri di liquidazione adottati dall’Agenzia attraverso i propri elaboratori elettronici. D’altronde, le soluzioni giuridicamente più corrette sono normalmente quelle più semplici e più conformi alla logica comune, e quelle più assurde e paradossali si fondano normalmente su meri paralogismi, talvolta difficili da smascherare e quasi impossibili da sradicare.
Dal caso di specie sorgono in particolare le seguenti questioni di diritto:
a) sull’ambito di applicazione della compensazione legale.
La prima questione riguarda l’ambito di applicazione della compensazione legale. Secondo l’art. 1241 c.c., invero, la compensazione opera “Quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra” e determina l’estinzione dei “due debiti… per le quantità corrispondenti”. In particolare, la compensazione legale “estingue i due debiti dal momento della loro coesistenza” (art. 1242, primo comma, c.c.).
Secondo l’Agenzia (ed i suoi sistemi automatizzati), i crediti possono essere utilizzati anche per compensare versamenti indebiti, che riproducano un versamento già effettuato. Non sembra tuttavia che in questo caso si possa parlare logicamente dell’utilizzazione di un credito in compensazione. Il credito non estingue parzialmente un pagamento indebito, ma ne riduce soltanto l’entità. Al di là dell’apparenza offerta dai codici impressi sull’F24, dunque, l’affermazione secondo cui nel caso di specie lo stesso credito sarebbe stato utilizzato una seconda volta in compensazione per effettuare il secondo versamento indebito è manifestamente erronea sul piano giuridico;
b) sulle modalità di svolgimento delle operazioni di liquidazione ex art. 36 bis, d.p.r. n. 600 del 1973.
Il secondo presupposto della pretesa dell’Amministrazione è costituito dalla autonomia e dalla separatezza di tutti i dati che compongono il mod. F24. I tributi indicati a debito dovrebbero essere rimborsati attraverso una distinta procedura (che nel caso di specie non risulta però attivata); i tributi indicati a credito, che avrebbero generato la dichiarazione di un credito di imposta superiore a quello effettivamente spettante, si tradurrebbero in un debito verso l’erario e generebbero, in aggiunta, l’applicazione di sanzioni e di interessi. Sarebbe invece preclusa la possibilità di effettuare un’unica operazione di liquidazione, compensando i debiti dell’Agenzia derivanti dalla duplicazione del versamento degli stessi tributi ed il presunto credito ad essa spettante per effetto della duplice utilizzazione del credito di imposta.
Questa impostazione si può forse comprendere in base ad esigenze meccanografiche; essa è però priva di qualunque fondamento sotto il profilo giuridico. Invero, secondo l’art. 8, primo comma, dello Statuto del Contribuente, che si propone di dare attuazione ai principi contenuti negli artt. 3, 23, 57 e 97 Cost., “l’obbligazione tributaria può essere estinta anche per compensazione”. In via di principio, ai rapporti tributari si applicano dunque le regole in materia di compensazione previste dal Codice Civile.
Non vi è ragione per ritenere che questo principio non sia applicabile alla procedura di liquidazione disciplinata dall’art. 36 bis del d.p.r. n. 600 del 1973, attraverso un semplice calcolo matematico del dare e dell’avere che conduca ad un unico risultato finale. Non si capisce dunque per quale motivo occorra distinguere tra crediti da rimborsare (al lordo, evidentemente, della somma compensata) e presunti crediti derivanti dalla indebita utilizzazione di un credito, generando un artificioso ed illogico frazionamento di un’operazione unitaria.
c) sulla trasformazione dei crediti indebitamente dichiarati dal contribuente in propri debiti verso l’erario.
Rimane da chiarire la ragione per la quale l’errore da me commesso, allorché avrei utilizzato lo stesso credito una seconda volta, faccia emergere un mio debito di imposta. Il punto richiede attenzione, perché non risulta mai esplicitato dall’Agenzia nelle innumerevoli fattispecie analoghe che si verificano nella pratica.
Occorre chiarire bene. Qual è la contestazione che implicitamente mi è stata formulata nel caso di specie? L’aver esposto in dichiarazione un credito di imposta (€ 5.154,00) di importo asseritamente superiore a quello effettivamente spetterebbe (€ 5.051,00); e ciò in quanto avrei utilizzato il credito risultante dalla dichiarazione del precedente anno per un importo superiore a quello dichiarato.
In tal modo, il maggior credito esposto in dichiarazione si trasforma per ciò stesso in un debito di imposta, assoggettato a maggiorazione di interessi e sanzioni. Nella comunicazione di (asserita) irregolarità inviata dall’Agenzia il calcolo delle somme dovute è così rappresentato:
IRPEF Codice tributo Importo
Imposta a debito 0,00
Minor credito 103,00
Imposta versata 0,00
Imposta e minor credito da versare 9010 103,00
Sanzioni 9012 10,30
Interessi 9011 4,96
TOTALE …………………………………………………………………………………..118,26
(tab. 3)
Si tratta dello stesso schema logico che nel corso della mia carriera ho rilevato in centinaia e centinaia di casi analoghi, e che verosimilmente si riproduce per milioni di contribuenti. Ma… qual è il fondamento logico-giuridico di questa pretesa? In qual modo l’esposizione di un credito in misura superiore a quello effettivo genera un debito di imposta? Qual è in sostanza l’imposta dovuta e non versata? E quali sono le norme sanzionatorie applicate nel caso di specie?
Sono domande che non trovano risposta. Secondo i principi della logica e del diritto, un credito inesistente è semplicemente un credito inesistente, e non costituisce la fonte di un corrispondente debito verso il presunto debitore. Secondo corretti principi logici e giuridici, l’Agenzia dovrebbe quindi semplicemente disconoscere l’esistenza del credito indebitamente esposto, salvo a verificare se esso sia stato indebitamente utilizzato in compensazione in periodi successivi ed abbia perciò determinato l’omesso versamento dei tributi indebitamente compensati. In questo caso, dovrebbe recuperare a tassazione i debiti successivi non pagati, applicando ad essi le sanzioni e gli interessi relativi. Se invece l’erronea esposizione di un credito in misura superiore a quella effettivamente spettante non ha dato luogo a nessuna indebita compensazione, si tratta di una mera irregolarità formale che l’Amministrazione dovrebbe semplicemente correggere al fine di eliminare un’apparenza giuridica che potrebbe dar luogo a future violazioni.
L’Agenzia non sembra farsi carico di questi problemi giuridici e segue indisturbata le sue pacifiche prassi. Il credito fittizio si trasforma in un contrapposto debito effettivo, già scaduto e da pagare senza indugio con aggravio di interessi e sanzioni. Forse ciò facilita i controlli e garantisce maggiori entrate; ma resta da capire se rispetta anche il principio di legalità a cui la Pubblica Amministrazione si dovrebbe attenere nell’esercizio dei suoi poteri.
d) sull’applicazione della sanzione.
L’Agenzia non si limita a pretendere il pagamento di una somma corrispondente al maggior credito indebitamente esposto in dichiarazione, ma applica pure autoritativamente una sanzione sull’importo dovuto. Dalla motivazione dell’atto non si desume nessuna indicazione della norma sanzionatoria applicata nella specie; e nessuna norma di tal genere si riesce in realtà a rinvenire nell’ordinamento sanzionatorio vigente.
Se poi il credito indebitamente esposto non fosse mai stato utilizzato mediante successive operazioni di compensazione, l’applicazione della sanzione sarebbe manifestamente contraria al disposto dell’art. 10, terzo comma, dello Statuto del Contribuente, che così recita: “Le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione… si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta”. La mera esposizione di un credito inesistente, o l’esposizione di un credito in misura superiore a quella effettivamente spettante, costituisce infatti una violazione puramente formale, che non genera di per sé alcun danno per l’erario.
e) Illegittimità, sotto altro profilo, dell’applicazione della sanzione.
L’art. 6 del d.lgs. 18 novembre 1997, n. 472, dispone che “se la violazione è conseguenza di errore sul fatto, l’agente non è responsabile quando l’errore non è determinato da colpa”.
E’ evidente che nel caso di specie si è trattato di un errore su un fatto, e cioè dalla dimenticanza di aver già pagato. Qual è la colpa che autorizza l’applicazione della sanzione? Pagare due volte è una colpa? E qual è dunque il presupposto per applicare la sanzione?
f) sui principi di collaborazione e buona fede nel rapporto tra contribuente e fisco.
In questo scritto ho più volte richiamato lo Statuto del Contribuente; ad esso faccio d’altronde frequente riferimento nell’attività didattica ed in quella professionale, perché rappresenta una legge eminente dell’ordinamento tributario e costituisce espressione diretta dei principi costituzionali. Secondo la più autorevole giurisprudenza, i principi dello Statuto si riassumono nel precetto contenuto nel primo comma dell’art. 10, secondo il quale “i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”.
La presente fattispecie fornisce un chiaro esempio del modo in cui questa regola – che è regola etica, prima che giuridica – viene intesa ed applicata nella esperienza concreta.
Si tratta di un involontario errore commesso in un’operazione di versamento. Lo stesso importo, di lieve entità, è stato versato due volte a distanza di pochi giorni con un identico mod. F24. Un elementare spirito di collaborazione e di buona fede dovrebbe indurre a ritenere che la somma versata in eccesso debba essere restituita senza indugio, senza obbligare il contribuente a diatribe estenuanti, a pagamenti di sanzioni e ad assurdi aggravi di attività amministrativa e contenziosa.
Invece no. L’Agenzia non recede. L’elaboratore elettronico ha sempre ragione. Il contribuente è un nemico da combattere e da sconfiggere. Deve pagare senza indugio il credito utilizzato due volte e deve essere sanzionato per la sua condotta. Se non paga nei termini, subirà l’espropriazione forzata dei propri beni.
E’ la logica del sistema. E’ la logica dell’Amministrazione.
6. Considerazioni finali.
Quale morale, alla fine di questa storia di ordinaria burocrazia?
Pagherò la somma ingiunta e farò ricorso.
Temo che mi aspetti una grossa delusione. Mi aspetto la solita domanda: “Ma lei si permette di intraprendere una causa per 150 euro? Non ha altro da fare nella vita?”. Spero che si vorrà comprendere che vorrei operare per amore di giustizia e per una società più equa.
Alessandro De Stefano